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1 Maggio, ripartiamo da Portella della Ginestra

Siracusa 1 maggio 2022. Non è un caso se quest’anno la Festa del Lavoro si svolge a Portella della Ginestra, luogo simbolo dei diritti del lavoratore. Due anni di pandemia non hanno reso possibile ridare l’adeguata rilevanza storica alla strage di Portella, all’eccidio commesso il 1°Maggio da parte della banda criminale di Salvatore Giuliano che sparò contro la folla di contadini riuniti per celebrare la Festa dei Lavoratori, provocando 11 morti e diversi feriti, da lì un susseguirsi di attentati ai partiti di sinistra e alle Camere del Lavoro della zona tanto che gli storici si spinsero a dichiarare quel periodo quale “crisi del maggio 1947”. Da Siracusa partirà una nutrita delegazione della Cgil per celebrare e ricordare la strage avvenuta nel 1947. Un momento di grande commozione storica che riconnette passato e presente in un luogo dove affondano le radici della nostra identità.
E’ un primo Maggio insolito, schiacciato fra uno scenario bellico scellerato e una crisi del lavoro e nel lavoro che attraversa l’intero nostro territorio, aggredendolo trasversalmente, senza distinzioni. Visto da Siracusa, il Primo maggio denuncia il lavoro che non c’è, il lavoro che viene meno insieme alla dignità individuale e collettiva di una comunità che arretra e che tuttavia non ha mai smarrito la voglia del riscatto e della rivendicazione. Una speranza possibile se sapremo rimettere al centro, con determinazione, la giustizia sociale, rispondere ai bisogni di protezione dei cittadini e dar forma ai nuovi diritti e ad un’idea forte e coesa di comunità responsabile . Attorno al Lavoro si può organizzare una lettura unitaria della crisi in atto, mettendo finalmente le mani nella sua materialità perché senza libertà materiale non c’è una vera libertà politica. Bisogna rimettere in forma politica la grande questione sociale davanti ai nostri occhi, così come occorre affrontare con altrettanto pragmatismo politico la frizione sociale in atto che ricerca una mediazione che è il cuore della democrazia. Occorre prendere atto che il modello di crescita che si è affermato fino ad oggi mette in discussione la qualità della vita delle persone innescando un nuovo meccanismo di diseguaglianza che trascina nel conflitto l’intera condizione sociale del lavoratore. Una politica imprenditoriale volta alla sola massimizzazione dei profitti a scapito dell’ambiente, della salute, della sicurezza e della dignità dei lavoratori non è più tollerabile perché nessun rilancio si può costruire sulla disperazione della gente. Niente è più forte di un’idea di cui sia giunto il tempo e questo è il nostro tempo. I lavoratori devono poter dire la loro, con competenza, sulla natura degli investimenti, sugli indirizzi delle imprese. Si tratta di pensare a nuove forme di democrazia economica, di sperimentare nuove modalità di codeterminazione nelle imprese, consapevoli del complesso rapporto fra il diritto di proprietà e la libertà della persona nel lavoro. La catena degli appalti e dei subappalti finanche nel settore pubblico, le esternalizzazioni, le delocalizzazioni hanno prodotto un mondo del lavoro frammentato e diviso. E ciò produce diseguaglianze di reddito e di diritti. Abbiamo le risorse per cambiare il modello di sviluppo e il modo di produrre, sanare vecchie storture e ingiustizie, aprire nuovi orizzonti nella ricerca, la formazione, le nuove tecnologie, la sostenibilità dell’ecosistema. Per una vera classe dirigente non è questo il momento di ritrarsi, piuttosto di fare tutti un passo avanti. Che lo vogliamo o no, si sta ridisegnando il nostro modello sociale complessivo. Il gesto politico più importante che possiamo compiere è provare a guidarlo. Intanto, il blocco del sistema produttivo e commerciale in atto, sta riproletarizzando la precarietà, trasformandola in povertà. Affrontare queste carenze sotto l’urgenza e la pressione della crisi significa riscrivere il contratto sociale perché si tratta di ridefinire il quadro dei diritti e doveri, i sistemi di sicurezza e di protezione, di favorire le opportunità di crescita, di contrastare le nuove diseguaglianze, evitando soprattutto che diventino esclusioni, espulsioni individuali dal diritto di cittadinanza. La crisi pandemica prima e la guerra dopo hanno portato alla luce i nostri ritardi, le incongruenze, l’esaurimento di vecchi schemi che continuavamo a replicare. In questo senso, l’obbligo a cambiare è anche un’occasione per riformare, per arrivare ai nodi di fondo. Non serve oscillare fra massimalismo e minimalismo. Il massimalismo è rivoluzionario a parole e rinunciatario nei fatti e il minimalismo è un riformismo che privilegia la politica dei piccoli passi dimenticando i grandi ideali. Occorre, invece, un riformismo radicale che parta dalla politica del giorno per giorno ma senza dimenticare i grandi ideali di giustizia e di uguaglianza sociale. Serve, soprattutto, la capacità di ripartire dal concreto, dalla reale sofferenza dell’economia e del mondo del Lavoro sapendo che la stagnazione civile ed economica corrode le istituzioni, apre scenari pericolosi e tiene in apnea un intero territorio. Dai temi della sanità all’industria, dalla questione del risanamento ambientale alle dinamiche degli appalti, dalle infrastrutture all’allentamento della legalità, dal caporalato allo sfruttamento, dal ricatto occupazionale all’emigrazione giovanile. Un lungo elenco di ferite aperte che soffocano il territorio e rischiano di pregiudicarne radicalmente lo sviluppo. Per questo serve che la Politica torni in campo e sieda a capotavola. Quello che va ricostruito oggi è un’azione comune su pochi capitoli chiari: come creare lavoro, cosa significa green new deal, come si rilancia la conoscenza, come si ricostruiscono politiche industriali credibili nell’era della inclusione digitale e della riconversione energetica. Creare, cioè, un ecosistema favorevole all’innovazione e una nuova consapevolezza sui diritti del Lavoro perché nessuna democrazia regge a lungo se l’economia ristagna e la povertà aumenta. Da troppo tempo modelli irrazionali ed umilianti di flessibilità hanno pregiudicato il senso del Lavoro, il rapporto tra il Lavoro e la vita, i meccanismi contrattuali. Ad un certo punto tutto è apparso derogabile perché solo così saremmo cresciuti ed avremmo potuto vincere la sfida competitiva. Ben venga, allora, il PNRR nella speranza che non si risolva in una dispersione degli interventi e nella distribuzione di mance, perché giustizia ecologica e giustizia sociale vanno insieme. Dobbiamo chiedere a tutti i soggetti economici e ai decisori politici progetti alti, utili ad aprire il nuovo cantiere della sostenibilità ambientale, dell’inclusione digitale, della transizione energetica e occupazionale e della ricollocazione della nostra area industriale nello scenario globale. Credo che i problemi siano alla nostra portata. Il territorio ha intelligenza e competenza per vincere questa sfida. L’innovazione non ci fa paura perché tutte le rivoluzioni industriali hanno sempre prodotto benessere e noi abbiamo sempre avuto la capacità di cogliere il senso delle innovazioni. E’ la nostra storia. Affronteremo questa prova sapendo che comunque il mondo del Lavoro, anche nelle condizioni così estreme, così come si presentano oggi, era e resta uno dei pilastri della sfida della modernità attraverso l’innovazione. E allora ripartiamo dal Lavoro, dal senso costituzionale più profondo del Lavoro quale elemento fondante di un nuovo umanesimo sociale fatto di giustizia sociale, di lotta alle diseguaglianze, di diritti e tutele per tutti, di dignità del lavoro e delle persone. Solo così riconnettiamo il Lavoro al diritto di cittadinanza di ognuno di noi che si esercita attraverso la partecipazione e la democrazia.

Il Seg. Gen. CGIL

Roberto ALOSI

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